Non potevamo non partire, questa volta. Durante l’anno, tipi e ritmi di vita diversi, quasi agli antipodi. Geograficamente distanti, per me la vacanza è tornare a casa, in Liguria, per riappropriarmi dei miei luoghi e affetti, per la mamma viaggiare in un luogo lontano, per spezzare l’appagante, ma molto dura, routine quotidiana.
Per me vacanza è avere il mare a portata di mano, che lassù dove vivo non c’è, per la mamma il mare c’entra sempre, ma è importante che sia un altro, di mare.
Il mare non poteva quindi mancare, anche se è arrivato solo alla fine, e nella sua forma migliore: nella forma di una camera d’albergo a strapiompo, sul mare, da cui non si vedeva che lui e non si sentiva che il suo rumore. Vi siamo giunte mezz’ora prima del tramonto, giusto il tempo di scendere, su uno scoglio solo per noi, a veder il sole infuocato calare placidamente, come ad acquietarsi, nelle fresche acque dell’Egeo.
Qui siamo approdate dopo una settimana in cui di mare non ne abbiamo visto, anche se in qualche modo era sempre presente: l’Anatolia è circondata, quasi per intero, da mari, che accompagnano da lontano anche il viaggiatore che la attraversa dall’interno.
L’abbiamo attraversata dall’interno, perché da anni desideravamo vedere che cosa combina la terra laggiù, dove le rocce si ergono fiere, dominando uno scenario sconfinato, e al contempo si lasciano erodere, levigare e modellare, da mani insieme naturali ed umane.
Diventano case, chiese, moschee, e animali di ogni tipo nell’immaginazione del viandante. Quasi esplodono di gioia e poi si mettono in posa, attendendo che il tempo dia loro una forma, sempre diversa e sorprendentemente nuova.
La Cappadocia è stato il nostro primo approdo e vi abbiamo sostato per diversi giorni, esplorandola in tutte le sue sfaccettature, nelle sue valli e nei suoi altipiani, tra le sue rocce abitate e le sue città sotterranee. L’abbiamo percorsa a piedi, con la passione del camminatore, esplorandone rapaci gli scorci più remoti, l’abbiamo osservata dal cielo, all’alba, in mongolfiera, e contemplata da un punto d’osservazione d’eccezione: Uçistar.
Il nostro villaggio scavato nella pietra, balcone da cui osservare a distanza di notte ciò che abbiamo avuto la fortuna di vedere dall’interno di giorno, ma anche piccolo mondo, in cui si riassume, in poche pennellate, lo spirito di quella terra immensa. La bellezza disarmante della semplicità di chi ci vive, il turismo che non deturpa ma forse può davvero aiutare a migliorare la vita delle persone. Come in un abbraccio siamo state accolte e abbracciandoci ci siamo congedate dagli abitanti del luogo.
La successiva meta l’abbiamo raggiunta di sera, dopo una giornata di traversata, con un autista speciale, che non una parola sapeva pronunciare in una lingua che non fosse la propria, ma che ci ha saputo a suo modo comunicare, la gioia di poterci accompagnare a conoscere qualche cosa della straordinaria ricchezza del suo paese.
Pamukkale da lontano appare come uno strano ghiacciaio a bassa quota tra verdi montagne e alcuni più aridi altipiani. Non si coglie di che cosa si tratta prima di vedere il primo ruscello d’acqua tiepida, che sgorga ai suoi piedi di calcare, e la prima parete di cotone, cui ci si può appoggiare.
Ma solo la mattina successiva abbiamo potuto immergerci nell’azzurro dell’acqua termale sul bianco del travertino, striato di rosa, che compare mano a mano che si sale. Una vasca dopo l’altra, l’acqua dell’una che scende nell’altra, su più lati e su più fronti. Scendere, girarsi, contemplare, tuffarsi, levigarsi col fango e rituffarsi in un ruscello, fino ad arrivare in alto, dove si erge l’antica città di Hierapolis. Sorta sull’acqua, di una piscina naturale, d’acqua termale, quella da cui scende l’acqua che una vasca dopo l’altra scende a valle. Una piscina in cui gli scogli non sono scogli, ma colonne greche, ioniche, sott’acqua ed emergenti dall’acqua.
Da lì si scorge il tempio di Apollo, da cui si sale verso un teatro, immenso, intatto.
Da questo momento in poi il nostro viaggio è legato a doppio filo con l’archeologia: città greche poi diventate romane. Afrodisia, una sorpresa: quasi sole tra i reperti, abbiamo potuto godere con stupore della ricchezza decorativa dei templi e degli edifici
pubblici.
Nel mondo antico è stato il centro di maggior rilievo per la produzione scultorea.
Qualcuno di voi se ne ricordava? Noi no, ed è stata una gradita sorpresa.
Tappa successiva, naturalmente, Efeso. Meno inatteso, ma non meno gradito, il suo splendore, ancora chiaramente percepibile. Ricchi fregi, domus affrescate e poi lei, la biblioteca di Celso. Il gioiello più prezioso, dalla facciata quasi integra e le vistose decorazioni. A Efeso ci arrivava il mare, nell’antichità. Non ora, e per raggiungerlo ci siamo rimesse in marcia, accompagnate dalla nostra dolcissima guida, che con passione ci ha accompagnate verso fine del viaggio.
Sul nostro mare, lo stesso che bagna la Liguria, da cui sono ripartita subito dopo essermici posata. Mare da cui la nostra civiltà ha preso le mosse e a lungo ha mantenuto collegate le nostre terre, ora così distanti ma storicamente così vicine.
Questo sottile confine tra prossimità e distanza è ciò che mi ha convinta a partire. La mamma del resto sapeva che proponendomi come meta la Turchia io non avrei mai potuto rinunciare. Una terra che ci ha riunite, in cui presto, rigorosamente insieme, vorremo ritornare, magari, questa volta, stando più a contatto col suo mare.
Grazie Nunzia e Linda, il vostro racconto tocca il cuore. Non vediamo l’ora di organizzare il vostro prossimo viaggio insieme.